Aggressioni a infermieri e medici: il 71% sono donne
Nel nostro Paese sono sempre meno rari gli episodi violenza negli ospedali e nelle residenze sanitarie assistite
Violenze e aggressioni ai medici e agli operatori sanitari sono in aumento in Italia. Nel triennio 2019-2021 si sono accertati più di 4.800 casi, per una media di circa 1.600 l’anno. La maggior parte avviene in case di cura e ospedali.
A essere più colpite sono le donne, nel 71% dei casi. L’analisi della Consulenza statistico attuariale Inail è stata presentata in occasione della seconda edizione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione del 12 marzo.
Aggressioni, ospedali e Rsa
I dati sugli infortuni in occasione di lavoro, codificati come aggressioni e minacce nei confronti del personale sanitario, sono stati esattamente 4821, fra il 2019 e il 2021. Quasi quattro casi su 10 hanno riguardato personale sanitario trentenne e quarantenne. Il 37% è concentrato nel settore assistenza sanitaria. Vale a dire: ospedali, case di cura, istituti, cliniche e policlinici universitari. Il 33% nei servizi di assistenza sociale residenziale, che comprendono case di riposo, strutture di assistenza infermieristica e centri di accoglienza. Il restante 30% ricade nel comparto dell’assistenza sociale non residenziale.
Gli infermieri i più colpiti
Il 71% dei casi di aggressioni ha riguardato le donne, mentre per entrambi i generi si rileva che il 23% dei casi interessa gli operatori sanitari fino a 34 anni. Il 39% quelli da 35 a 49 anni, il 37% da 50 a 64 anni e l’1% oltre i 64 anni. Oltre un terzo riguarda infermieri ed educatori professionali. Categorie normalmente impegnate in servizi educativi e riabilitativi con minori, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati, disabili, pazienti psichiatrici e anziani all’interno di strutture sanitarie o socio-educative.
Seguono, con il 29% dei casi, gli operatori socio-sanitari delle professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali e, con il 16%, le professioni qualificate nei servizi personali e assimilati. Soprattutto operatori socio-assistenziali e assistenti-accompagnatori per persone con disabilità. Più distaccata, con il 3% dei casi di aggressioni ai danni del personale sanitario, la categoria dei medici, che non include però nell’obbligo assicurativo Inail i medici generici di base e i liberi professionisti.
In tanti non denunciano
Secondo la Fnopi, chi non ha segnalato l’episodio di violenza subito lo ha fatto perché, nel 67% dei casi, ha ritenuto che le condizioni dell’assistito e/o del suo accompagnatore fossero causa dell’episodio di violenza. Nel 20% dei casi è convinto che tanto non avrebbe ricevuto nessuna risposta da parte dell’organizzazione in cui lavora. Il 19% ritiene che il rischio sia una caratteristica del lavoro che ha scelto e il 14% non lo ha fatto perché si sente in grado di gestire efficacemente questi episodi, senza doverli riferire.
Il burnout dopo le aggressioni
Per i professionisti le conseguenze materiali delle aggressioni fisiche vanno nel 32% dei casi da escoriazioni e abrasioni a fratture e lesioni dei nervi periferici. Finanche – seppure in pochi casi – all’invalidità. La principale conseguenza psicologica è il burnout che colpisce il 10,8% degli infermieri che hanno subito violenza. Attualmente gli operatori sanitari in stress da lavoro sono il 33%. Anche gli assistiti corrono rischi. La violenza è nella maggior parte dei casi legata alla carenza di personale. E alle sue conseguenze sui servizi. Un’assistenza efficiente (con la riduzione del rischio di mortalità fino al 30%) si ha con un rapporto infermiere-paziente da 1 a 6. A oggi il rapporto medio nazionale è di 1 a 12.