Musica

Eugenio Finardi, il non credente che canta Dio da sempre

Non dimenticate le cover del principe gentile del rock italiano

Eugenio Finardi non crede in Dio. Non ci ha mai creduto, e non lo ha mai negato. Un “umanista”, quello sì, ha sempre dichiarato d’esserlo. La sua produzione discografica lo dimostra con un’attenzione viscerale, uno sguardo costante e intimo sull’uomo, sulla grazia del dolore e l’irruenza dell’estasi. “Non sono credente – ha raccontato in un’intervista a Oggi – ma penso che concetti come la trascendenza, la grazia, la pietas, l’estasi, il sacro, l’amore siano parte della mente umana, sentimenti dell’uomo di cui l’umanità ha bisogno”.

Una filosofia finardiana che arriva anche sul palco di Sanremo, quando nel 2012 porta all’Ariston Tu lo chiami Dio. A tutti gli effetti una poesia d’amore spirituale, scritta alla soglia dei sessant’anni. Chi altro può cercare disperatamente un senso alla vita, se non chi non può trovare conforto in Dio? Finardi è uno che vorrebbe crederci, che vorrebbe lasciarsi coccolare, con la testa poggiata sulla spalla del gigante dei cieli. Uno che vorrebbe volare, ma non può, per parafrasare il brano. Se potesse, si libererebbe del fardello che gli è toccato: quello di combattere con le lacrime e non con la preghiera. E una realtà ‘altra’, infatti, l’ha sempre cercata ovunque, perfino negli extraterrestri. “Portami via, voglio una stella che sia tutta mia” e “un pianeta su cui ricominciare”. Ma in Dio no.

La lettura della produzione finardiana in questa chiave è un esercizio spirituale a sé. Non è un caso che alcune delle sue più belle cover e rivisitazioni di brani altrui inseguano l’idea di Dio. Mettendolo in discussione, chiamandolo all’appello con rabbia, timidezza o frustrazione, cercandolo in mezzo alla gente: se fosse uno di noi? Tra le fila della grandezza di uno sperimentatore come lui, principe gentile del rock italiano, americano per adozione e devoto per natura, spicca anche una dote rara. Finardi sa prendersi cura delle canzoni degli altri. È interprete senza fare eccezioni. Onora i padri e le madri di ogni brano che ha preso in prestito. Soprattutto quando parlano del Dio in cui non crede.

Uno di noi

What if God was one of us? È il 1996 quando Finardi resta colpito dalla grande domanda che Joan Osborne ha rivolto all’America, e la porta in Italia: E se Dio fosse uno di noi? Quello di Osborne è un pezzo senza tempo, di quelli duri a morire: punta di diamante dell’album Relish, con un’intro a cappella che mette i brividi ancora oggi, nominato inevitabilmente ai Grammy del ’95. Disco d’oro in Belgio e negli USA, Platino in Australia e Norvegia. Reinterpretato ovunque e, tra gli altri, anche da Prince. Per Finardi è chiaramente una questione personale, quasi l’occasione di un dialogo diretto con il suo più grande interrogativo e, forse, un modo plausibile per crederci, solo un attimo. Se anche Dio avesse i suoi guai, se anziché chiedergli un miracolo basterebbe chiamarlo solo per chiedergli: “come stai?”.

Hallelujah 

La leggenda narra che Hallelujah di Leonard Cohen sia una delle canzoni più ‘coverizzate’ della storia. Ignorata dai più nell’84, senza riscontrare particolari entusiasmi commerciali, sappiamo tutti come è andata poi negli anni seguenti. Soprattutto, è stata soggetta ad infinite reinterpretazioni (dal 2010, raggiunte le 200 versioni ufficiali e con poi l’exploit incontrollabile di cover su web e piattaforme streaming, qualcuno ha smesso di tenere il conto).

Cohen, che aveva dato alla luce il brano dopo una gestazione lunga anni e che, per primo, è tornato a riscriverlo più volte, detestava il tran-tran che si era creato attorno alla sua canzone. Ma un pezzo così non lo trattieni: diventa un appello collettivo. Il tormento che legava Cohen al brano, uscito fuori in maniera tutt’altro che miracolosa, aveva molto a che fare con un’indagine profonda. Un rompicapo biblico, un’ossessione che non poteva non attrarre Eugenio Finardi. Nel 2003, con l’album dal vivo Il silenzio e lo spirito, propone una meravigliosa cover di Hallelujah. Passata nelle mani di molti altri italiani (Elisa, Baccini, Elio e le Storie Tese, Cristina D’Avena), con Finardi il lirismo della canzone incontra la rassegnazione atavica che il blues si trascina dentro, e la disperazione di un padre iniziata nel 1982, con la sindrome di Down della figlia. Nei primi 31 secondi di intro strumentale succede qualcosa di inafferrabile, come quel brivido nella schiena che la cultura popolare attribuisce al soffio dei defunti. Perché con Finardi sembra di scendere negli abissi del macabro e poi, il tempo che resta, cercare almeno uno sprazzo di luce. “Ma l’amore non è una marcia trionfale. È freddo e spezzato come un Hallelujah”.

Oceano di silenzio

Il silenzio e lo spirito è l’album dei grandi omaggi. Accanto ad Hallelujah, infatti, Finardi piazza anche The land of plenty, sempre di Cohen, e poi De André e Bach. Ma soprattutto Battiato. La presenza dell’amico e collega in un album che è un’evocazione intera del divino, nella dimensione inafferrabile del tempo, è forse qualcosa in più che un omaggio. Per certi versi l’Oceano di silenzio di Franco sembra essere la chiave dell’intero concept dell’album di Eugenio. 18 anni dopo, l’addio di Finardi all’amico conosciuto nel ’73, fa appello a una poetica che è anche un fil rouge caro ad entrambi, e di cui Battiato è stato Maestro assoluto: “Quando verrà il momento ci ritroveremo in un oceano di silenzio a contemplare attoniti la vastità dell’universo e sorridere commossi dall’ineluttabilità della natura umana”.

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