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Diversità culturale e internazionalismo: stiamo perdendo la nostra identità?

La cultura dominante, gli Anni Ottanta, il monopolio culturale anglo-americano

Oggi 21 maggio si celebra la Giornata della diversità culturale. Un patrimonio e una risorsa da difendere e custodire alla pari dei reperti archeologici che teniamo nei nostri musei. In un mondo ammaliato dall’ideologia globalista, la diversità culturale tende ad essere appiattita a favore della cosiddetta “internazionalità”.

Soprattutto dagli inizi degli Anni Ottanta in poi, complice lo straordinario sviluppo delle tecnologie, abbiamo assistito via via ad un progressivo abbandono e svuotamento delle proprie tradizioni e usi, verso l’inseguimento di un traguardo e un ideale chiamato “internazionalismo”.

L’internazionalismo degli Anni Ottanta

Verso gli inizi degli Anni Ottanta ai giovani veniva inculcato e sponsorizzato l’essere soprattutto: “internazionali”. Parlare tante lingue, andare a studiare all’estero, portare blue jeans e masticare chewing gum all’americana erano diventate le nuove regole. Esportare la propria tradizione in quasi tutti gli ambiti, compreso quello dello spettacolo, era divenuto sinonimo di provinciale e retrò. Nasce la disco music, gli artisti abbandonano progressivamente la lingua madre e cantano in inglese. Nell’ambito culinario invece nasce il concetto di cucina internazionale, cosicché nei ristoranti è più facile trovare la Coca Cola che il piatto tipico locale.

Anche il linguaggio cambia e invece delle intercalari dialettali i giovani al loro posto iniziano ad aggiungervi vocaboli colloquiali nuovi di stampo anglosassone. Wajò o compà diventano semplicemente bro da brother, riunione diventa meeting, e un semplice panino sandwich. L’internazionalismo dunque anziché assumere il ruolo di una filosofia profonda, che sprona le menti ad amare e conoscere le altre culture, diventa nei fatti semplicemente uno scopiazzare e incollare termini e usi della cultura anglosassone.

La diversità culturale soffocata dall’internazionalità dell’inglese

Il mito dell’intenzionalità in Occidente in realtà non è stato altro che un americanizzazione e anglicizzazione dell’intera Europa. La cultura dominante che soffoca le subculture e che non lascia molto spazio alle diverse realtà culturali locali. Veritiere più che mai risuonano oggi le parole della canzone sanremese di Enrico Nigiotti, che nel descrivere la contemporaneità racconta al nonno “si parla più l’inglese che i dialetti nostri”.

Oggi, colpevoli anche i mass media che riportano a pappagallo ormai i termini tecnici inglesi invece di provare a creare alternative, assistiamo ad un vero e proprio abuso di termini stranieri nella nostra lingua. Dal jobs act al recovery fund solo per fornire ulteriori esempi. Non è per pigrizia se diciamo oggi competitor e mission invece di competitore e missione, lo facciamo soprattutto per moda e perché vi è di fondo un grosso complesso di inferiorità nei confronti di questa lingua. Perché? Perché l’inglese è internazionale.

La cultura dominante anglo-americana

In realtà non esistono lingue o culture più internazionali di altre. Esistono culture casomai dominanti a seconda dell’epoca. Ed è giusto chiamare la dominanza anglo-americana con il suo nome. La diversità culturale rischia di morire  in nome di una cultura internazionale che non esiste. Le persone oggi sono incentivate ad abbandonare la propria identità anziché valorizzarla a favore di un’altra idealisticamente più ‘neutra‘ e piatta. Rinunciando per giunta ad una parte di noi stessi e rendendo le nostre esistenze e le nostre città molto più povere. Alla stregua di questa filosofia difatti ovunque nel mondo i negozi, i format televisivi, i modi di vestire e di vivere, diventano esattamente gli stessi. Impoverendo la realtà delle sue mille altre sfaccettature possibili.

La diversità culturale e la globalizzazione

Anziché promuovere un maggior interscambio fra i popoli il globalismo puro continua a generare tutt’ora solo tante clonazioni di uno stesso luogo, uno stesso brand, uno stesso format, in tutto il mondo. I giganti – gli esempi sono tanti, prendete MacDonald – non lasciano spazio alle piccole realtà locali e particolari, oggi sempre più indifese e in difficoltà. La diversità culturale e l’internazionalismo sono dei concetti complessi e profondi che il globalismo non è mai stato in grado di integrare del tutto. Gettando per di più le basi per l’esistenza di veri e propri monopoli culturali, sempre di più commerciali e oggi anche tecnologici, prevalentemente a stelle e strisce. Oggi siamo cittadini globalizzati solo ai fini del consumo. Viaggiamo, compriamo e mangiamo in tante luoghi diversi, ma senza approfondire la cultura degli altri popoli. Come ci potrà mai essere dopotutto un interscambio culturale se abbandoniamo già apriori noi stessi la nostra realtà e tradizione per adattarci a quella decisa dal mainstream?

Chiara Cavaliere

Attualità, Spettacolo e Approfondimenti

Siciliana trapiantata nella Capitale, dopo la maturità classica ha coltivato la passione per le scienze umane laureandosi in Scienze Politiche alla Luiss Guido Carli. Senza mai abbandonare il sogno della recitazione per cui ha collaborato con le più importanti produzioni cinematografiche italiane tra cui Lux Vide, Lotus e Italian International Film.
Si occupa di attualità e degli approfondimenti culturali e sociali di MAG Life, con incursioni video. Parla fluentemente inglese e spagnolo; la scrittura è la sua forma di attivismo sociale. Il suo mito? Oriana Fallaci.

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