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Wimbledon, il match del secolo: ecco perché Djokovic ha battuto Federer

Wimbledon, Novak Djokovic batte Federer al tie break del quinto set nella finale più lunga nella storia del torneo. E no, per quanto si possa pensare il contrario, non è affatto una vittoria scontata, quella del campione serbo. Certo, il culmine di un anno ed una stagione di grandi successi, ma mai nessuna delle sue soddisfazioni è arrivata senza sacrifici. Djokovic è il campione. E, qualsiasi campione che si rispetti, vive momenti di gloria, momenti di grande festa, alternati a periodi di grande frustrazione. Ma, per il tennista serbo, la “caduta” è stata pagata a caro prezzo. Perché se sei un giocatore mediocre, nella media, ti è concesso anche di sbagliare.

Ma, quando sei un campione della sua portata, anche una defiance fa mettere in discussione tutta la tua carriera e il tuo talento. Prima del 2018, Djokovic aveva vissuto una prima parte di stagione da incubo. Era fuori agli Australian Open, così aveva deciso di operarsi al gomito, per tornare al massimo e licenzia le sue storiche guide Agassi Stepanek. Apparentemente un grosso azzardo, ma l’inizio di una silenziosa rivoluzione nella sua carriera.

Djokovic rientra in primavera e sembra essere tornato con una grinta mai vista, tanto da sorprendere tutti, a parte qualche piccolo stop. Ritrova l’energia di sempre, i colpi giusti, ma soprattutto la testa per affrontare qualsiasi sfida. Definitivamente sancisce il suo ritorno, in grande stile, a Wimbledon, dove scrive il suo nome nell’albo d’oro per la quarta volta riuscendo a voltare definitivamente pagina. Di lì in avanti il 2018 di Djokovic sembra quello di un alieno imbattibile: vince, tra i vari tornei, gli U.S. Open e, dopo essere uscito dalla top 20 dei tennisti al mondo, ci ritorna, ma come testa di serie. Una scalata in verticale, senza riserve e senza possibilità di stop. Quasi un miracolo quello combinato da Novak Djokovic e dalla sua potente racchetta.

Djokovic, quest’anno, è arrivato a Wilmbledon con l’obbiettivo di vincere, non per prendere parte alla competizione. Tutti i match prima della finale, sono stati solo un riscaldamento e, in più di un’occasione, una passeggiata sul campo rosso inglese. Nella finale più epica di tutti i tempi, ha bissato il successo 2018 a Wimbledon e Djokovic sale a cinque trofei complessivi nel torneo londinese. Ha battuto Roger Federer in 4 ore e 57 minuti, colpo contro colpo. Il punteggio: 7-6, 1-6, 7-6, 4-6, 13-12 (7-3): è la prima volta che Wimbledon viene assegnato con la nuova regola del tie break sul 12-12 al quinto set.

Le prime parole di Djokovic, post match, forse spiegano il perché abbia vinto. Non solo tanta forza e tenacia per il campione serbo, non solo la voglia di rivincita, piena di sacrifici e qualche discesa immeritata. Ma anche tanto rispetto per l’avversario, insieme ad un timore referenziale, tipico di chi, dal basso, è riuscito a rifarsi tutto da solo. Djokovic ha vinto perché, nei momenti clou, è stato più bravo, più freddo e – certamente – più fortunato. Ma ha vinto la sua costanza, il suo essere un campione dal temperamento unico al mondo. Anche quando il pubblico, nel tifo, patteggiava palesemente per lo svizzero Federer, lui immaginava che loro urlassero il suo nome. E ha centrato perfettamente l’obbiettivo.

Purtroppo, in questo genere di partite, uno dei due alla fine deve perdere. Se non la più eccitante, questa è stata una delle migliori finali che io abbia mai giocato, contro uno dei più grandi di tutti i tempi, per il quale ho molto rispetto.

Diverse le parole di Roger Federer, palesemente deluso dell’epilogo finale, ma comunque soddisfatto del suo impegno e del riultato ottenuto nel match.

Finale da ricordare? Io cercherò di dimenticarla. E’ stata una grande partita, è stata lunga, ma devo essere soddisfatto della mia performance. Devo farmi le congratulazioni. Spero di avere dato ad altri la possibilità di credere che a 37 anni non è tutto finito. Adesso devo recuperare, però sono ancora in piedi. La mia famiglia è orgogliosa? Non saranno contenti magari del piatto.

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