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In vetta a occhi chiusi: 25 maggio 2001, l’alpinista non vedente Erik Weihenmayer conquista il Monte Everest

Esistono storie come questa che, contro ogni logica, parlano di un record e di una persona che l’ha battuto in modo straordinario. È il caso di Erik Weihenmayer, il giovane alpinista statuinitense che il 25 maggio 2001 ha conquistato il Monte Everest. Cosa c’è di incredibile? Che è stato il primo non vedente a raggiungere la vetta più alta del pianeta.

Perché vuoi scalare l’Everest?

8.848 metri sopra il livello del mare: è il monte più alto del continente Asiatico e dell’intera Terra. Situato nella catena dell’Himalaya, in tibetano è chiamato anche Chomolungma (“madre dell’universo”) e in nepalese Sagaramāthā (“dio del cielo”), due definizioni eloquenti, avvolte in un misticismo impenetrabile che lascia quasi immaginare cosa si possa provare: mettere le mani sulla roccia, rovente sotto il sole, ghiacciata dalla neve oppure inumidita dalla pioggia, e spinta dopo spinta arrivare a guardare il mondo dall’alto della sua vetta.

“Perché vuoi scalare l’Everest?”, “Perché è lì” rispondeva nel 1924 George Mallory, quando insieme ad Andrew Irvine si apprestava ad esplorare la geografia del monte con il sogno di scalarlo, in una delle prime spedizioni britanniche alla conquista dell’Everest. Il corpo di Mallory verrà ritrovato solo nel 1999 e nessuno scoprirà mai se, prima di perdere la vita, raggiunse la cima oppure no.

In vetta a occhi chiusi

Un’altra storia quella di Erik Weihenmayer, che a 32 anni quella vetta l’ha conquistata sotto gli occhi del mondo intero, scrivendo a tutti gli effetti una grande pagina della Storia. Un’impresa senza precedenti, poiché Erik aveva appena 13 anni quando la diagnosi di retinoschisi diventò una minaccia reale: una separazione della retina in due lamine, che in breve tempo sfociò nella cecità assoluta. Una perdita grave e inaccettabile, quando sei un ragazzino sportivo e iperattivo, e vorresti divorare il mondo anziché vederlo scomparire sotto i tuoi occhi. Nato e cresciuto in Colorado, all’epoca del liceo Erik era un giocatore di basket e un bikers acrobata: continuò ad esserlo, mentendo a tutti mentre, giorno dopo giorno, la vista lo abbandonava. Imparare il Braille, affidarsi ad un cane guida e a un bastone bianco, diplomarsi e pensare al futuro. Poi l’elaborazione del lutto e d’improvviso un’insolita adrenalina: ecco la libertà totale di poter finalmente rischiare tutto.

Che Erik fosse destinato a conquistare l’Everest forse, a voler essere romantici, sembrava scritto fin dall’inizio di questa storia. O almeno da quando, ormai cieco a 16 anni, si è avvicinato all’alpinismo con il Carroll Center per ciechi. Agile, naturalmente in simbiosi con la roccia, riusciva a sollevarsi solo con la forza delle braccia per quaranta volte di fila. “Scimmietta”, così lo chiamavano gli istruttori. Qualche anno dopo, per i giornali di tutto il mondo sarebbe diventato “L’uomo ragno”.

“Nessuno soffre come un cane per un panorama”

Chiunque non faccia alpinismo, al solo pensiero di ritrovarsi sospeso nell’aria con 4mila metri sotto i piedi, ad allontanarlo dalla terra ferma, e altri 4mila sopra la testa, a separarlo dall’obiettivo, impazzirebbe. È una paura viscerale, una morsa allo stomaco, un terrore di morte quasi atavico che suda le mani anche solo ad immaginarlo. Come sarebbe farlo ad occhi bendati?

“Mi piacciono le sensazioni spirituali che ti danno le montagne. I suoni. La vastità degli spazi aperti” racconta Erik. “C’è una domanda che non sopporto: perché faccio l’alpinista se poi non posso vedere il panorama una volta in cima? Nessuno scala le montagne per la vista. Nessuno soffre come un cane per un panorama. La vera bellezza di conquistare la vetta di una montagna è quando sei appeso in cordata, quando le stai sul fianco, non in cima“.

Oggi Erik ha 50 anni, una laurea, una famiglia, è un insegnante e anche uno dei 150 alpinisti al mondo che hanno scalato le Seven Summits, le sette cime più alte di ogni continente. All’Everest ci è arrivato passando dal McKinley nel 1995, poi dal Kilimangiaro nel 1997 e dall’Aconcagua nel 1999; per continuare ancora nel 2014 con la discesa in kayak del Fiume Colorado, attraverso il Gran Canyon, e nel 2015 con la scalata della parete sud della Marmolada, la temutissima Regina delle Dolomiti, distinguendosi di nuovo come unico alpinista non vedente della Storia ad aver battuto questo record.

Al suo fianco solo due bastoni telescopici e un amico fidato a gridargli le istruzioni in codice necessarie. Soprattutto un unico, incrollabile desiderio: quello di deridere e combattere ogni pregiudizio. “No Barriers”, nessuna barriera, è la sfida promossa dall’associazione fondata da Erik per portatori di handicap che superano limiti sportivi. Ma a pensarci bene i suoi record, da far invidia a qualsiasi altro alpinista, fanno apparire ridicolo il concetto stesso di handicap. Erik Weihenmayer sfida l’alpinismo ad armi pari, senza sconti, giocando alle sue regole. E vince. Perché forse, dal principio, questo era il suo destino.

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