Il governo Draghi come è stato dalle indicazioni giunte dal Colle è in carica per il disbrigo degli affari urgenti, come per fronteggiare le emergenze delle varie crisi che ci attanagliano. E sul tavolo stando ai rumors che si rincorrono tornerebbe come ciclicamente accade da tempo immemore in odore di Legge di Bilancio il dossier Alitalia, oggi Ita Airways.

Le ultime indiscrezioni riportano dell’intenzione del premier di portare avanti entro la fine della Legislatura – orizzonte della campagna elettorale e qualche scampolo di autunno –  la trattativa per la vendita in esclusiva. Alcune fonti vicine al ministero dell’Economia, avrebbero riferito che lo strumento scelto sarebbe la firma di un memorandum. Il partner a cui andrebbe la compagnia di bandiera italiana è la cordata Msc-Lufthansa, ad oggi data in pole position per l’acquisizione della compagnia. Resta il dubbio se, con le elezioni fissate al 25 settembre, l’attuale esecutivo avrà anche i tempi per firmare il preliminare di vendita. 

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Per di più con la presa di posizione della Meloni sulla questione che ha cercato di frenare il governo dimissionario sull’operazione. Dicendosi pronta, in caso di vittoria, a salvare la compagnia di bandiera. La domanda che molti italiani dunque si staranno ponendo è: perché vendere la compagnia di bandiera? E perché tanta “fretta” da parte dell’esecutivo? Ha senso salvare ancora una volta una compagnia di bandiera che ha prodotto solo debito e poco più?  

Il disastro di Alitalia: bad e good company fino ad Ita

Dagli Anni del boom, simbolo innegabile dello stile e dell’eleganza del made in Italy nel mondo, alla metà degli Anni ’90 in poi, la storia di Alitalia è stata una lunga e innegabile via crucis di salvataggi, ricapitalizzazioni e fusioni, che hanno prodotto una situazione debitoria ingente, una serie questione di personale in volo e a terra (con codazzo di esuberi e stipendi d’oro). A cui aggiungere gli importanti ritardi competitivi della compagnia nella gestione della strategia industriale. E che si stima siano costati al Paese circa 13 miliardi. Il primo tentativo di vendita della compagnia fu nel 2007 con il governo Prodi, che portò avanti in forma esclusiva l’offerta di Air France-Klm. Le proteste e la posizione di Berlusconi in campagna elettorale fermano l’anno dopo l’operazione, lasciando spazio alla cordata dei cosiddetti ‘capitani coraggiosi’. 

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E’ il tempo della prima ‘bad company‘: i debiti – circa un miliardo -della cattiva gestione manageriale rimangono a carico dello Stato e dei contribuenti, e la ‘good company‘ viene battezzata Cai, acronimo di Compagnia Aerea Italiana, che nasce ufficialmente il 26 agosto 2008. Nel 2012 il rosso è di 280 milioni, l’anno successivo si schizza a 569 milioni di euro. Più di un milione e mezzo di perdite al giorno. Nel 2013 tocca al governo Letta provare il salvataggio avviando i contatti con Etihad. Il gruppo di Abu Dhabi firma un’intesa per rilevare il 49% di Alitalia. Ma la compagnia non riesce a riprendersi neanche con l’azione degli emiri. Poi c’è anche il tentativo di un accordo su piano industriale generale dei trasporti con in scena Ferrovie dello Stato e Atlantia. 

Le ragioni dietro la vendita di ITA

L’attuale Ita Airways per provare a decollare ha scelto circa 3 mila dipendenti – gli altri 10 mila in esubero sono a carico dello Stato – con una cinquantina di aerei. Il minimo per mantenere il funzione la vera ricchezza che fa gola da sempre a molti della compagnia di bandiera italiana: gli hub in posizione privilegiata nel nostro Paese e non solo. Con il mese di giugno che portato un piccolo utile. Ma il punto resta un altro. Per farla volare continuano a servire soldi che la compagnia non è in grado di generare da sola. Al netto della possibile effrazione alle regole europee sulla concorrenza/aiuti di Stato (Europa ha chiuso gli occhi per anni sul tema). E’ fattibile un nuovo piano industriale – con investimenti certi – che le consenta di ingrandire di nuovo flotta? Chi sarebbe disposto? E soprattutto a quali condizioni? Al di là del problema economico è chiaro che si tratta di scelte, possibilità ed alleanze politiche.    

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L’ultima privatizzazione, decisa dal governo Contebis, è un impegno inderogabile assunto con l’Ue. Nel caso in cui il ministero dell’Economia conservi il 100% della compagnia aerea oltre il tempo fissato, l’investimento pubblico di 720 milioni, ottenuto con la finalità della vendita, sarebbe considerato aiuto di Stato in violazione. Cosa farà l’UE? Alla Francia di Emmanuel Macron è stato concesso un esborso di 9 miliardi di euro per la nazionalizzazione del colosso energetico Eléctricité de France. Ma il trasporto aereo non è sotto la spada di Damocle della crisi energetica, con due colossi stranieri come Air France-KLM e Lufthansa Group in posizione dominante. Con conseguenze poco prevedibili per il mercato del turismo che in Italia vale 80 miliardi. Di qui la corsa alle tranne nostrane. 

Le conseguenze per il nostro Paese

Quale sorte attende Ita? Diventare un compagnia di serie B o C. Un cobranding del gruppo tedesco? Oppure la compagnia acquirente sposterà il traffico verso i propri hub? Le conseguenze anche per l’indotto dei prodotti del Made in Italy legati all’esperienza volo potrebbe infatti non essere da poco. Mangiare cibo tedesco, solo per fare un esempio. La vendita non copre minimamente – e come potrebbe mai – gli investimenti fatti non nel lungo periodo su Alitalia, ma anche sull’ultima delle ‘good company’, ITA. Questo sul piano economico. Ma quali sono le conseguenze strategiche? Draghi stesso aveva dichiarato che non doveva essere il debito “ma la crescita il barometro di credibilità”.

Ma come pretendiamo di creare PIL se rinunciamo a fette di mercato strategiche per un Paese come il nostro, meta turistica, e nel cuore del Mediterraneo? Se la crescita è l’obbiettivo, non abbiamo forse bisogno di investire e di credere in progetti industriali strategici a medio-termine. Sperando che un domani portino i propri frutti. Il debito pubblico diventa sostenibile solo se aumenta la crescita economica. Se crescita non servono neppure i soldi in ingresso da ‘svendite’ o buone privatizzazioni. Quanto rischia l’Italia? Il proprio peso economico e di conseguenza il ruolo politico di terza potenza economica.