Fatti dal MondoNewsPrimo piano

Navalny è morto e Assange sta male. Nel mondo ricco libertà e democrazia diminuiscono

Sia il politico russo che il giornalista australiano hanno svelato corruzione e abusi. E hanno denunciato la nefandezza delle guerre

Il leader politico e attivista russo Alexei Navalny, 47 anni, principale oppositore di Vladimir Putin, è morto il 16 febbraio scorso in una remota colonia penale della Siberia. In quegli stessi giorni è cominciato il conto alla rovescia per decidere il destino del giornalista australiano Julian Assange, 53 anni, in prigione a Londra e sul punto di essere estradato negli Usa dove lo attende il carcere a vita. Lì potrebbe morire presto a causa delle sue precarie condizioni psicofisiche, sostiene sua moglie, Stella Morris.

Navalny e Assange, due uomini, due simboli. Nell’immaginario collettivo occidentale esprimono l’idea di libertà di espressione e di stampa, di lotta alla corruzione, all’ingiustizia e all’oscurità del potere. Apparentemente non c’è collegamento fra queste due personalità. Già in vita, e ancor più in morte, Alexei Navalny è assurto a emblema della lotta per la democrazia contro la dittatura putiniana, trovando il quasi unanime entusiasmo dei politici e dei media occidentali.

Assange Navalny Russia Stati Uniti
Alexei Navalny (a sin.) e Julian Assange

Assange e la endless war

Julian Assange rappresenta invece, parallelamente ma diversamente da Navalny, una spina nel fianco di quei regimi democratici – in primis gli Stati Uniti – pronti a scagliarsi a parole contro le autocrazie più terribili, come Russia, Cina, Iran, Afghanistan. Salvo poi divenire implacabili persecutori – naturalmente in punta di diritto e di formale legalità – di chi osa strappare il velo del politicamente corretto per raccontare la nuda verità della guerra.

Come ha fatto Assange, che nel 2010 ha pubblicato su WikiLeaks (“fuga di notizie“) la piattaforma online che ha fondato nel 2006, migliaia di documenti diplomatici e militari statunitensi e non solo, coperti da segreto. Ha così svelato crimini di guerra e abusi dei soldati americani durante le guerre in Iraq e in Afghanistan, nei primi anni Duemila, oltre alle modalità di gestione del campo di prigionia statunitense di Guantánamo, a Cuba, di fatto un lager.

E ha parlato delle endless wars: le guerre senza fine fatte dalle superpotenze mondiali per varie ragioni – dagli affari al ‘lavaggio’ di soldi sporchi – a prescindere dalla vittoria finale sul terreno. Perché conta di più farla una guerra che effettivamente vincerla. Come, secondo Assange, è avvenuto per la guerra delle potenze occidentali guidate dagli Usa, in Afghanistan.

La strana morte di Navalny

Non è un caso se anche sugli account social di WikiLeaks il 16 febbraio è apparsa la notizia della morte in circostanze poco chiare del dissidente russo Alexei Navalny. Il quale ha apertamente criticato la guerra russa in Ucraina. Leader del partito politico Russia del Futuro, nel 2011 aveva dato vita alla Fondazione Anticorruzione, in grado di svelare ai russi e al mondo scandali e corruzione degli oligarchi moscoviti, a cominciare da quelli più vicini a Vladimir Putin. Nel 2021 Navalny ha ricevuto il Premio Sacharov per la libertà di pensiero dal Parlamento europeo.

La vicenda del dissidente è al centro del documentario Navalny di Danel Roher che in America ha vinto il Premio Oscar 2023. Il blogger è stato anche il presidente di Coalizione Democratica, che raduna alcuni partiti di opposizione. Negli anni passati ha co-presieduto questa formazione politica con Boris Nemtsov, morto assassinato nel febbraio 2015. Una figura importante che si sospetta ucciso dai servizi segreti del FSB su mandato dell’entourage del presidente russo, se non su mandato dello stesso Putin. Nel 2021 Amnesty International ha riconosciuto Alexei Navalny “prigioniero di coscienza“.

Quello stesso anno il principale avversario politico di Putin era finito agli arresti, non appena aveva rimesso piede a Mosca arrivato da Berlino. La Germania si era fatta carico delle sue cure a seguito di un grave avvelenamento quasi certamente ordito dai servizi segreti russi. Navalny, ben consapevole che rientrato nel suo Paese sarebbe finito in galera, non si era sottratto a questa certezza. E dal regime di detenzione in Russia, dopo l’ultima condanna a 19 anni di reclusione, ha continuato fino all’ultimo a denunciare soprusi in carcere. A cominciare dal fatto che le autorità dei penitenziari lo hanno più volte rinchiuso in anguste celle di punizione tramite i pretesti più inconsistenti per fiaccarne il morale e il fisico.

Navalny è morto nella colonia carceraria numero 3 del distretto autonomo di Yamalo-Nenets, nel Circolo Polare Artico, ufficialmente “dopo essersi sentito male a seguito di una passeggiata“. Secondo la tv russa si è trattato di un “coagulo sanguigno“: una trombosi. “Non voglio condoglianze – ha dichiarato sui social la madre dell’uomo politico, Lyudmila Ivanovna Navalnayafino a pochi giorni fa Alexei stava bene“. Sulla stessa linea il suo avvocato, Leonid Solovyov, che lo aveva visitato due giorni prima della morte, il 14 febbraio, trovandolo in buone condizioni. “Putin sappia che lo porteremo presto davanti alla giustizia” ha detto da Monaco di Baviera Yulia Navalnaya, moglie dell’attivista.

La libertà di stampa è in crisi

Adesso è Stella Morris Assange a temere per la vita di suo marito. “La sua salute è in declino, mentalmente e fisicamente. La sua vita è a rischio, ogni singolo giorno trascorre in prigione. Se verrà estradato, morirà” ha dichiarato. Negli Stati Uniti, infatti, Assange rischia di passare il resto della sua vita in prigione per aver pubblicato migliaia di documenti militari e diplomatici riservati. A fornirglieli era stata la ‘gola profonda’ dell’esercito americano Chelsea Manning. L’allora presidente Barack Obama aveva deciso di non procedere contro Assange, commutando la pena contro Mannig, rilasciata dopo 7 anni di prigione. Durante la presidenza Trump le accuse ad Assange assunsero nuovamente rilievo, ai sensi dell’Espionage Act del 1917.

Se Julian Assange finirà in carcere in America la libertà di stampa in tutto il mondo ne risentirà molto, spiega Kristinn Hrafnsson, caporedattore di WikiLeaks. “Se un cittadino australiano che pubblica in Europa rischia il carcere negli Stati Uniti, ciò significa che nessun giornalista sarà al sicuro in futuro”. “Stiamo assistendo a un attacco alla libertà di stampa in tutto il mondo. È come una malattia, come una pandemia antistampa che si insinua su di noi. Ha preso forma in modo incrementale nel corso degli anni“. “Nessuno credeva che negli Stati Uniti l’Espionage Act potesse essere usato contro un editore e un giornalista. Questo è successo per la prima volta”.

Domenico Coviello

Attualità, Politica ed Esteri

Professionista dal 2002 è Laureato in Scienze Politiche alla “Cesare Alfieri” di Firenze. Come giornalista è “nato” a fine anni ’90 nella redazione web de La Nazione, Il Giorno e Il Resto del Carlino, guidata da Marco Pratellesi. A Milano ha lavorato due anni all’incubatore del Grupp Cir - De Benedetti all’epoca della new economy. Poi per dieci anni di nuovo a Firenze a City, la free press cartacea del Gruppo Rizzoli. Un passaggio alla Gazzetta dello Sport a Roma, e al desk del Corriere Fiorentino, il dorso toscano del Corriere della Sera, poi di nuovo sul sito di web news FirenzePost. Ha collaborato a Vanity Fair. Infine la scelta di rimettersi a studiare e aggiornarsi grazie al Master in Digital Journalism del Clas, il Centro Alti Studi della Pontificia Università Lateranense di Roma. Ha scritto La Storia di Asti e la Storia di Pisa per Typimedia Editore.

Pulsante per tornare all'inizio