La Russia cresce vendendo petrolio nonostante le sanzioni. Che hanno avuto un reale impatto solo sul Vecchio Continente, dall’analisi degli ultimi dati ed irrilevante sugli Stati Uniti. Con le inevitabili ricadute sulla competitività delle industrie europee rispetto a quelle dei giganti USA, Russia, e Cina. Non è un caso se la locomotiva tedesca si è inceppata. E con lei tutta l’Eurozona. Che le sanzioni del blocco occidentale nei riguardi della Russia, andavano contro l’interesse europeo era chiaro sin dall’inizio. Ma che sarebbero state quasi del tutto inefficaci lo avevano capito in pochi. 

La propaganda USA cavalcata dai media europei per orientare l’opinione pubblica del Vecchio Continente, ci aveva raccontato che le sanzioni avrebbero isolato la Russia. Che bannandola da Swift, tagliandole lo sbocco del mercato del gas e del petrolio europeo, Mosca si sarebbe impoverita. E poi, sulla scia dell’isolamento occidentale, anche gli altri Paesi avrebbero seguito “il buon esempio” e agito di conseguenza. Peccato che lo stesso FMI che aveva previsto allora la certa catastrofe russa, oggi riconosce che Mosca è destinata a crescere nel 2024 più dell’Eurozona. A pagarne le spese siamo stati infatti noi europei.

Presidente Putin/ FOTO ANSA

Le sanzioni e il price cap non funzionano: la Russia cresce e vende con il petrolio a prezzi più alti

Ormai è chiaro: le sanzioni non stanno funzionando, di sicuro non come previsto. Stati Uniti, Europa, Giappone ed Australia non sono riusciti affatto a isolare Mosca come sperato. Al massimo hanno avuto un effetto nei confronti dei patrimoni personali di qualche miliardario russo, ma poco altro. A confermarlo è l’ultima previsione del FMI che prevede un’economia russa in espansione del 2,2% quest’anno e dell’1,1% nel prossimo. Nel 2024 la crescita dell’Area Euro dovrebbe essere stimata ad 1,4% quindi lievemente superiore a quella russa. Ma le incognite date dal rallentamento e indebitamento tedesco sono tante. La certezza? Dalla guerra in Ucraina l’Europa paga il gas il quadruplo rispetto a quello a basso costo proveniente dalla Russia. Che è stato rimpiazzato in gran parte dal costosissimo gas liquefatto proveniente soprattutto dal Qatar e dagli Usa. Ma non finisce qui.

San Pietroburgo/ FOTO ANSA

Fonti di Mosca fanno sapere che il 99% del suo petrolio venduto all’estero, oggi viene pagato molto di più della soglia fissata dal price cap introdotto dai Paesi occidentali poco meno di un anno fa. Con il risultato che da luglio i russi riescono a vendere la maggior parte del petrolio a prezzi superiori ai sessanta dollari al barile, riducendo l’impatto della sanzione spacciata come più incisiva per limitare la capacità del Cremlino di finanziare lo sforzo bellico in Ucraina. Sul mercato globale è difatti apparsa una flotta ombra di petroliere composta da centinaia di piccoli operatori – anche con una o due navi – che battono la bandiera di Paesi come il Camerun e la Liberia. Trasportando milioni di barili russi, assicurate da aziende indiane, cinesi o russe. Levando spazio al mercato assicurativo globale delle navi cisterna che ha sede a Londra.

Mosca, l’Arabia Saudita e i BRICS: l’Occidente non ha isolato Putin nemmeno politicamente

Putin ha difatti influenzato sapientemente il mercato globale del petrolio, tessendo importanti rapporti con un altro gigante del greggio: l’Arabia Saudita. Con i vari tagli alla produzione decisi proprio dai due Paesi in sede Opec+, il prezzo del Brent (petrolio estratto nel Mare del Nord) è difatti tornato a salire. E così anche il petrolio russo in questi mesi è stato venduto a prezzi più alti. I Paesi del blocco Brics inoltre (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, n.d.r.) hanno beneficiato e preso nuovo slancio dall’isolamento di Mosca dal blocco occidentale visto che export e import che prima avvenivano con l’Europa ora sono stati dirottati verso queste destinazioni.

Presidente Vladimir Putin/ FOTO ANSA

Sinora dunque le sanzioni hanno avuto un reale impatto solo sul Vecchio Continente, ed irrilevante sugli Stati Uniti. Con le inevitabili ricadute sulla competitività delle industrie europee rispetto a quelle dei giganti USA, Russia, e Cina. Non è un caso se la locomotiva tedesca si è inceppata. E con lei tutta l’Eurozona.