Arte e Cultura

Paul Gauguin, l’arte contro la civiltà senz’anima

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Se Hermann Hesse avesse conosciuto Paul Gauguin gli avrebbe forse dedicato uno dei suoi romanzi. Perché avrebbe trovato riscontro all’affermazione del poeta simbolo del romanticismo ottocentesco, Novalis: “Diventare un essere umano è un’arte“.

Nei soli 29 anni della sua breve esistenza, il tedesco Novalis comprese e cercò di attuare una filosofia di vita. Che costituì poi uno dei fil rouge di tutta l’opera del suo connazionale Hesse, Premio Nobel per la letteratura 1946. Il pittore francese Paul Gauguin rappresenta invece, a nostro avviso, un’incarnazione di quella filosofia. Gauguin, di cui il 7 giugno ricorre l’anniversario di nascita, nel 1848 a Parigi, visse come Boccadoro. Il co-protagonista del Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse: dopo il Siddharta uno fra i più celebri romanzi del grande autore di Calw.

Paul Gauguin, “Ritratto dell’artista con il Cristo giallo” (1889)

Nell’opera dello scrittore tedesco, Boccadoro è un artista, con il talento di una possente capacità di amare, percepire e vivere le emozioni. Ha lo spirito del vagabondo, ereditato dalla madre, figura la cui essenza cerca di ritrovare ovunque. E il suo vagabondare nel mondo da un’avventura all’altra diventa lo strumento per scoprire le profondità di se stesso. E “diventare un essere umano“. Così fece, o tentò di fare, Paul Gauguin. L’artista celebre, a oltre un secolo dalla morte (avvenuta nel 1903), per i suoi coloratissimi quadri che ritraggono le donne maori della Polinesia. Gauguin, di padre francese che perse un anno dopo la nascita, era legatissimo alla madre peruviana. Una donna “leggiadra e graziosa“, scrisse, dallo “sguardo così dolce, così fermo, così puro e carezzevole“.

Gauguin e la Polinesia

Al tempo stesso fu proprio il cosmopolitismo familiare e materno che lo indusse a viaggiare per nave, ancora adolescente, in mezzo mondo dandogli il gusto per l’avventura. E che lo spinse, una volta divenuto pittore, a sognare indefessamente i luoghi della Polinesia francese, emblema di un esotismo incontaminato. Di un’originaria, intatta, armonia fra l’uomo e la natura. Laggiù dove si traferì a un certo punto della sua esistenza, e dove poi morì, Gauguin cercò di attuare ed esprimere quella fuga dalla realtà occidentale che era soprattutto la contestazione della civiltà moderna senza anima.

Gauguin fotografato da Jules Agostini nel luglio 1896, a Tahiti. Foto Twitter @artribune

Se poeti come Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud si rifugiarono, almeno in parte, nella ‘sperimentazione’ di droghe ed eccessi per uscire dall’avvilente quotidianità della società massificata, Gauguin si mise in viaggio. L’avvicinamento alla Polinesia fu progressivo, per tappe, fino all’ultima: senza ritorno. Al pittore simbolista Odilon Redon, che gli aveva fatto un ritratto e cercò di dissuaderlo a partire, Gauguin scrisse di aver “deciso di andare a Tahiti per finire là la mia esistenza. Credo che la mia arte, che voi ammirate tanto, non sia che un germoglio, e spero di poterla coltivare laggiù per me stesso allo stato primitivo e selvaggio. Per far questo mi occorre la calma: che me ne importa della gloria di fronte agli altri! Per questo mondo Gauguin sarà finito, non si vedrà più niente di lui“.

Paul Gauguin, “Manao tupapau” (1892), olio su tela, 73×92 cm, Albright-Knox Art Gallery, Buffalo

In Noa-Noa (la profumata, ndr.), il racconto biografico e romanzato della sua scoperta della Polinesia, Gauguin scrisse che “la civiltà mi sta lentamente abbandonando.” “Comincio a pensare con semplicità, a non avere più odio per il mio prossimo, anzi ad amarlo. Godo tutte le gioie della vita libera, animale e umana. Sfuggo alla fatica, penetro nella natura“. Non fu sempre così, anzi. Alla base del peregrinare di Gauguin ci furono anche motivi prosaicamente economici, tipici di un artista rincorso dai suoi debiti. Ma più di ogni altra cosa vi fu il sogno di una libertà e di una felicità assolute.

Paul Gauguin, particolare di “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” (1897-1898), olio su tela, 139×374,5 cm., Museum of Fine Arts, Boston

E del rinnovamento della pittura nel mito del ‘primitivismo’. In un mondo come quello di Tahiti dove poteva raffigurare solo animali, alberi, onde marine e ragazze seminude dalla sensualità misteriosa, Gauguin seppe recuperare un rapporto più sincero ed equilibrato con la natura. E portò nella pittura moderna un cambiamento dirompente. Considerato tra i maggiori interpreti del post-impressionismo, non raggiunse il successo in vita. Come il suo amico Vincent Van Gogh. Oggi è considerato un gigante, per il suo uso sperimentale del colore e dello stile sintetista che si distinse dall’impressionismo. Il suo lavoro ha influenzato l’avanguardia francese e molti artisti moderni, tra cui Pablo Picasso e Henri Matisse. Gauguin fu anche una figura importante nel movimento simbolista come pittore, scultore, incisore, ceramista e scrittore.

Paul Gauguin, “Van Gogh mentre dipinge girasoli” (1888) olio su tela, 73×91 cm, Van Gogh Museum, Amsterdam

Domenico Coviello

Attualità, Politica ed Esteri Professionista dal 2002 è Laureato in Scienze Politiche alla “Cesare Alfieri” di Firenze. Come giornalista è “nato” a fine anni ’90 nella redazione web de La Nazione, Il Giorno e Il Resto del Carlino, guidata da Marco Pratellesi. A Milano ha lavorato due anni all’incubatore del Grupp Cir - De Benedetti all’epoca della new economy. Poi per dieci anni di nuovo a Firenze a City, la free press cartacea del Gruppo Rizzoli. Un passaggio alla Gazzetta dello Sport a Roma, e al desk del Corriere Fiorentino, il dorso toscano del Corriere della Sera, poi di nuovo sul sito di web news FirenzePost. Ha collaborato a Vanity Fair. Infine la scelta di rimettersi a studiare e aggiornarsi grazie al Master in Digital Journalism del Clas, il Centro Alti Studi della Pontificia Università Lateranense di Roma. Ha scritto La Storia di Asti e la Storia di Pisa per Typimedia Editore. Segui Domenico su Facebook Segui Domenico su Linkedin

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