Fulminacci all’improvviso: uno come lui non arrivava da troppo
Né indie, né it-pop. E se fosse proprio un discorso a sé di chi si lascia contaminare senza emulare?

C’è stato un periodo romanticissimo anticipato dai divini Baustelle (che rimangono un caso a parte), inaugurato poi da I Cani ed esploso del tutto con Calcutta, in cui ci siamo persi nell’indie italiano. E perdersi è stato bello. La sensazione era quella d’essere rappresentati, finalmente anche nel Duemila, da un cantautorato che non fosse solo quello dei giganti rimpianti degli Anni Settanta. Sembrava che tutti volessimo essere indie. E che l’indie fosse ovunque, perfino nei viaggi in macchina al posto di Battisti, nei primi hashtag su Instagram e Facebook, fissato sui muri da bombolette coraggiose. “Cosa mi manchi a fare?” scrivevamo in piena notte, citando ubriachi d’amore quell’esordiente di Latina che ci regalava un po’ di puro dramma generazionale, attaccando con un verso che ci faceva sentire tipo i Rokes di Che colpa abbiamo noi (“La pioggia scende fredda e su di te”), e culminando in altri che abbiamo consumato senza ritegno: “Mi prenderò un gelato con il tuo sapore”.
Tutto molto indie
D’improvviso, dunque, l’idillio.
È arrivato l’indie, o in qualche modo è ritornato, con la ribalta dei cantautori indipendenti. Quelli che che preferivano autoprodursi e autopromuoversi, bypassando le grandi major e la vetrina dei talent show. Forse perché né le major e né i talent se li filavano ancora, o forse perché volevano essere veramente liberi di entrare dalla porta sul retro, di lanciare un singolo fuori ovunque senza che nessuno li conoscesse. E quindi di mettersi esclusivamente nelle mani del pubblico, cantarsela e suonarsela per fatti loro. Imitare quel vecchio cantautorato che ascoltavano in cameretta con la stessa nostalgia che ci riguardava quasi tutti. Nel Duemila eravamo una minoranza, ma presto saremmo diventati rumorosi.
Forse troppo rumorosi, e quindi un po’ banali. A tratti più rigidi dei Futuristi marinettiani, di fronte all’idea di uscire dalla nostra nicchia d’intellettuali snobbetti, che si passavano sottobanco ‘il nuovo pezzo’ di ‘quel nuovo cantautore’ mai sentito prima. Fino ad inviperirci con chi non era più abbastanza indipendente e iniziava a cedere alle lusinghe del pop mainstream… Magari con una hit che portava il titolo di una città spagnola featuring un noto rapper (ciao Pamplona). Perché l’indie all’inizio incarnava davvero un’attitudine, un modo di vivere, vestire e sentire.
Noi credevamo nel romanticismo
Cronologie e ricordi confusi, almeno quanto i testi di certe canzoni di cui ci siamo drogati. Fatto sta che abbiamo iniziato ad accogliere il 2015 con l’inno di cui avevamo bisogno: l’arrivo di Levante sulla scena era ironico ed eccentrico. La stramba veste di un titolo che portava il nome di Alfonso, in realtà nascondeva la sua forza nel ritornello: “Che vita di meeer*a”, rigorosamente strascicato e liberatorio.
Ci dirigevamo verso la fine dei vent’anni mentre Motta esordiva da solista (2016): sì, quelli sottopalco eravamo proprio noi, squarciagola e braccia al cielo: “Amico mio, sono anni che ti dico andiamo via”. Noi cervelli non-in fuga rimasti a fare i conti con il buio oltre due lauree. La generazione 1000 euro che era pure peggio di quella commedia con Mandelli, Tiberi e la Crescentini. O di Sermonti in Smetto Quando Voglio, che per farsi assumere in nero garantiva: “Sono laureato, ma guardi, è un errore di gioventù”.
E intanto, “nel mattino trascinato dagli alberi”, in cuffia suonava imponente e lirica come un pezzo d’altri tempi Stormi di Iosonouncane, la traccia-spettacolo del suo secondo album d’inediti, Die. “E con la morte nel cuore correrò per tornare”.
Ancora più malinconica e disincantata ci accompagnava Niente più di Colapesce, un Moody Blues su “questo male che ci fa del bene”, e che per assurdo ci faceva sentire un po’ immortali. Tristi e sopraffatti, ma vivi. Succedeva prima, molto prima dell’altra musica, quella ‘leggerissima’.
Era il periodo in cui, per intenderci, iniziavamo a perdere la testa per una band con una tag-line che sembrava il manifesto dei nostri anni più belli, e ci autorizzava a fare ogni follia per cui pentirci la mattina dopo (compresi i messaggi vocali di 10 minuti a Matilde). Dicevano: “Noi siamo i Thegiornalisti e crediamo nel romanticismo”.
Fulminacci all’improvviso
Il primo album di Fulminacci, La vita veramente, è uscito ad aprile 2019. Cinque minuti dopo Tommaso Paradiso avrebbe abbandonato per sempre i TheGiornalisti (che comunque erano già diventati più pop che indie). A 22 anni, invece, Filippo Uttinacci si affacciava al mondo della canzone italiana con due singoli estratti: Borghese in Borghese e la title track del disco, con cui poco dopo avrebbe vinto la Targa Tenco per l’opera prima. Nel frattempo, il periodo romanticissimo che inizialmente ci aveva esaltati, ormai ci aveva seccato un po’. La sensazione meravigliosa che tutto fosse ‘molto indie’ s’incrinava sotto l’impressione che fosse diventato ‘troppo indie’.
Banalmente indie, superficialmente indie, sempre lo stesso indie. Quello del citazionismo scemo, della sciatteria abusata e della solita nenia ‘voce e chitarra’ che ormai sembrava manierismo, più che indipendenza. Come se a quel punto si potesse essere tutti Calcutta e Gazzelle adottando uno sguardo triste e schivo, e infilando il trittico “moka, accendino, capelli” in ogni testo. Così, a caso. Insomma: ridendo e scherzando, le parodie de Le Coliche erano diventate più interessanti dei nuovi artisti emergenti.
Ecco, l’album di Filippo Uttinacci in arte Fulminacci avrebbe potuto essere uno dei tanti. E invece era l’esordio di uno che non ascoltavamo da tanto.
Che sensazione impareggiabile, quando la avverti: il suono di chi emerge per restare e rimescolare le carte in tavola. Lo ascolti e sbarri gli occhi, poi lo riascolti e ti ritrovi a pensare: “Fulminacci, ma tu sei del ’97. Da dove hai tirato fuori tutto ‘sto talento mentre noi facevamo il countdown verso i 30?”.
Tra indie e pop senza snobismi
Sì, perché Fulminacci è stato da subito un cantautore fresco, pieno di soprese, un ragazzetto cresciuto a Roma con vista su Malagrotta. E che, a dirla tutta, con l’indie pop condivideva l’etichetta e poco altro. Per scrivere il testo di Un fatto tuo personale (“ma a me mi fa paura tutto, e non lo vedi che divento matto?”) ha usato come traccia i Comizi d’amore di Pasolini. Nel cassetto conserva il sogno di duettare con De Gregori e il rimpianto di non aver sfiorato Dalla. Ma ha studiato anche cinema e si immagina a scrivere un film di Nanni Moretti o Woody Allen, oltre che a recitare per i fratelli D’Innocenzo.
Sogna, Fulminacci, ma nella serata cover di Sanremo ha chiesto umilmente scusa a Jovanotti, in anticipo, prima di portare sul palco la sua Penso positivo (con un intervento di Lundini sulla famosa strofa della grande Chiesa, che resterà nel best of del Festival). Perché Filippo è arrivato al momento giusto: quello in cui, “nel cinema come nella musica”, ha spiegato lucidamente a Il Fatto Quotidiano, “si sono create delle situazioni in cui l’ambiente indie si toglie la puzza sotto al naso e si lancia nel pop“.
E infatti nel suo album d’esordio c’era un po’ di tutto. Da Silvestri a Jovanotti e con un pizzico di Beatles. Brani come Tommaso e Una sera sono un biglietto da visita eclettico e difficile da ignorare. Pezzi da ballare (il primo) e da tirare fuori gli accendini ai live (il secondo), che si portano dentro la tradizione del citazionismo e il realismo contemporaneo dei testi. “Ma ricorda che l’Aurelia è troppo fredda quando è sera / Non si può fare come ti pare / Tra un po’ non avrai più vent’anni / E la vita diventa un mestiere“. Quello che nel primo album aveva già il profumo di una frizzante novità, nel secondo ha definito una cifra matura e sorprendente. Perché se al primo giro è fortuna, al secondo è un dato di fatto.
Il figlio ribelle
Con Tante care cose (uscito a marzo 2021) è tornato con 10 inediti anticipati da 3 singoli (tra cui la Santa Marinella portata a Sanremo, in gara tra i Big). Chi scrive non saprebbe stabilire un podio dei brani più riusciti: è un disco che mantiene lo stesso livello (altissimo) dall’inizio alla fine. E già questo è un fatto tutt’altro che ordinario. A 23 anni lo scatto di perfezionamento di Fulminacci rispetto all’esordio ha quasi dell’incredibile. Scanzonato, vulcanico e sperimentale, ha realizzato un album così originale da non essere davvero etichettabile.
Si passa da canzoni di un’intensità rara come Le biciclette, la prima totalmente autobiografica (“Io che ti parlo male del mondo / Tu che mi guardi”), a tracce che è impossibile non ballare, assolutamente fuori dagli schemi, come Canguro e Tattica. Libere dal binomio limitante di ‘voce e chitarra’, giocano con una varietà strumentale che cattura e confonde, saltando tra batterie, synth, archi, pianoforte e chitarre. E allora tu balli e canti frasi come “parliamo di tutto, del fatto che ti amo di brutto” e non sai neanche cosa stai ballando davvero, cosa stai cantando. È indie? Indie pop? Magari it-pop?
Il vero motivo per cui Fulminacci è una delle figure cantautorali più promettenti degli ultimi anni, è che si palesa in un gregge di emergenti in cerca di etichette, con il talento spontaneo di chi si lascia contaminare senza però emulare. Figlio ribelle di una wave nata da quell’indie che ci era andato a noia, e di chi c’è stato prima. In 23 anni di vita ha assorbito la qualunque, però non prova ad essere l’erede di nessuno (ed è qui che fioriscono le vere novità). Lo ascolti e ti ricorda tutto quello che ti piace da sempre. Ma torni ad ascoltarlo perché, in fondo, non ti ricorda nessuno. È Fulminacci e basta.
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